mercoledì 5 giugno 2013

La Piccola Sarta Cinese

Il commento di Atapo al penultimo post mi ha fatto partire la solita sequenza di associazioni che mai e poi mai proporrei a uno psicologo.
Da queste parti, più che cooperative, sono sorti come funghi piccoli negozietti di taglia-e-cuci, gestiti in genere da giovani donne cinesi, che per cifre ben più che ragionevoli eseguono piccoli e meno piccoli lavori di rammendo e sartoria: dall'orlo al rifacimento di tasche o fodere.
La cinesina sotto casa di mia mamma ha mani bellissime, un sorriso delizioso e una cura tale nello svolgere questi lavori che davvero si finisce per rivolgersi a lei, disimparando qualcosa in termini di manualità, ma molto imparando in termini di umanità.
Come quando il fratello, che ha in gestione il bar dell'angolo, alla domanda Come va? risponde con un Sem chi a laurà che contrasta un po' con le sue fattezze inequivocabilmente orientali. E quando lo sento disquisire sulla pensione che non arriverà mai, perché ora che ci arriva lui avranno finito di darle, mi rendo conto che più di ogni ragionamento astratto possono le sue parole sul suo diritto di terra di sentirsi ed essere italiano.

Il brano che segue non c'entra con questo sproloquio, ma fa parte delle associazioni di idee. Le mie, cioè.

«Ba-er-za-che». Tradotto in cinese, il nome dell'autore francese formava una parola di quattro ideogrammi. Che cosa magica, la traduzione! Di colpo, superata la pesantezza delle prime due sillabe, il suono marziale, aggressivo e un po' ridicolo di quel nome svaniva, e dall'insieme di quei quattro caratteri eleganti ed essenziali emanava una bellezza insolita, un aroma esotico, sensuale, generoso come il profumo inebriante di un liquore conservato per secoli in una cantina. (Anni dopo appresi che a tradurre Balzac in cinese era stato un grande scrittore, il quale, non potendo pubblicare le proprie opere per motivi politici, aveva dedicato la sua vita a tradurre quelle degli autori francesi).
Quattrocchi aveva esitato a lungo prima di scegliere quel libro, o era stato il caso a guidare la sua mano? Oppure ci aveva dato proprio quello perché, fra tutti i tesori della preziosa valigia, era il più breve e il più malconcio? Era stata la grettezza il vero motivo della sua scelta? Non lo sapemmo mai. Certo è che quella scelta cambiò radicalmente la nostra esistenza, o almeno il periodo della nostra rieducazione sulla montagna della Fenice del Cielo.
Il libretto in questione s'intitolava Ursule Mirouët.
Luo lo divorò la notte stessa in cui Quattrocchi ce lo passò, e all'alba lo aveva finito. Spense la lampada a petrolio, mi svegliò e me lo diede. Io rimasi a letto per tutta la giornata, senza mangiare, senza fare nient'altro che starmene immerso in quella storia francese di amore e di miracoli.
Immaginatevi un ragazzotto di diciannove anni, digiuno di esperienze amorose, ancora assopito nel limbo dell'adolescenza, e che non aveva conosciuto altro se non le solite chiacchiere rivoluzionarie circa il patriottismo, il comunismo, l'ideologia e la propaganda. Di punto in bianco, come un intruso, quel piccolo libro mi parlava dell'insorgere del desiderio, della passione, delle pulsioni, dell'amore, tutte cose su cui, fino a quel momento, nessuno mi aveva mai detto niente. [Dai Sijie - Balzac e la piccola sarta cinese]

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